Sono partita con l’idea di dare, sono tornata sapendo di aver ricevuto

Sono partita con l’idea di dare, sono tornata sapendo di aver ricevuto

Quando siamo partiti ero piena di aspettative, di domande e, ma sì anche di timore.
Appena messo piede fuori dall’aeroporto ci è venuto incontro Victor, abbiamo caricato i bagagli su i due pullmini sgangherati di cui avevamo tanto sentito parlare, e siamo partiti in direzione Kouvè. Cercavo di carpire quanto più possibile con lo sguardo: le vie laterali non erano asfaltate, le moto trasportavano minimo due persone, animali, un po’ di tutto; le case avevano il tetto di lamiera e qua e là c’erano delle strutture di legno coperte da rami di palma.
Ad un certo punto l’asfalto è finito e la terra è diventata rossa anche sotto di noi, dietro un polverone e davanti la strada libera fino a destinazione… la sensazione di essere vicini, un cartello che ce lo confermava e poco più avanti un altro con la scritta ‘Misericorde’. Il pullman ha superato il centro sociale, che poi sarebbe diventato semplicemente Casa, ha girato a sinistra e si è fermato davanti a un cancello.
Quest’ultimo si è aperto su un cortile dove un gruppo di bambini era felicissimo di vederci. Io un’accoglienza del genere non l’avevo mai ricevuta, nemmeno dalla mia famiglia, e queste persone non mi conoscevano! Credo che da quel momento le paure si siano messe in un angolo, per far spazio a tutto quello che di bello sarebbe arrivato.

Raccontare tutto sarebbe troppo difficile, se non impossibile, perciò mi limiterò alle cose che, con tutta probabilità, non mi dimenticherò mai:
La terra rossa che ti riempie prima gli occhi, poi il cuore. Quella che ci ha colorato i piedi per quasi un mese e anche la faccia, quando abbiamo viaggiato in mototaxi.
I sorrisi e gli sguardi dei bambini, della gente che ti osserva incuriosita almeno quanto te. Noi che ci sedevamo a gambe incrociate, loro che ci chiedevano “ma non ti fa male?” ed entro la fine del campo erano seduti nello stesso modo.
Il cielo stellato che si vede dalla terrazza, perchè così al buio non c’eri mai stata.
Le revisioni di fine giornata, quando mi scervellavo per trovare un’immagine positiva, ma dopo aver ascoltato gli altri avevo mille cose da dire.
La complicità che sin da subito si è creata con gli altri ragazzi del gruppo, tanto da chiamarci famiglia. Sono stata molto fortunata, abbiamo lavorato tanto e bene; siamo riusciti a mantenere il morale sempre alto, anche quando non era scontato, e a farci un sacco di risate.
Gli odori: il profumo de gâteau rouge che friggevano al lato della strada, gli odori del mercato il giovedì, e quello un po’ acre della benzina e della spazzatura bruciata.
La musica che ti sveglia alle 6 di mattina e riempie la Misericorde. I ragazzi che ballano e non puoi fare a meno di imitare (con scarsi risultati a confronto). Bambini di 8, 10 anni che salgono sul palco e recitano
poesie senza il minimo imbarazzo. Le gare di canestri che durano finchè fa buio e non ti tocca salire a cucinare, perchè è il tuo turno.
Le passeggiate. Le cene con i major. I giochi dei bimbi africani. Il verbo mélanger. Il duplice significato della parola yevu.
É un’esperienza da vivere consapevolmente e con spirito di adattamento, non è un gioco nè un safari, ti dà la possibilità di un confronto ed di imparare, più di quanto immagini (anche su te stesso). É un angolo di mondo che ogni anno aspetta di rivedere vecchi amici e conoscerne di nuovi.
Sono partita con l’idea di dare, sono tornata sapendo di aver ricevuto.

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