Quando siamo partiti ero piena di aspettative, di domande e, ma sì anche di timore.
Appena messo piede fuori dall’aeroporto ci è venuto incontro Victor, abbiamo caricato i bagagli su i due pullmini sgangherati di cui avevamo tanto sentito parlare, e siamo partiti in direzione Kouvè. Cercavo di carpire quanto più possibile con lo sguardo: le vie laterali non erano asfaltate, le moto trasportavano minimo due persone, animali, un po’ di tutto; le case avevano il tetto di lamiera e qua e là c’erano delle strutture di legno coperte da rami di palma.
Ad un certo punto l’asfalto è finito e la terra è diventata rossa anche sotto di noi, dietro un polverone e davanti la strada libera fino a destinazione… la sensazione di essere vicini, un cartello che ce lo confermava e poco più avanti un altro con la scritta ‘Misericorde’. Il pullman ha superato il centro sociale, che poi sarebbe diventato semplicemente Casa, ha girato a sinistra e si è fermato davanti a un cancello.
Quest’ultimo si è aperto su un cortile dove un gruppo di bambini era felicissimo di vederci. Io un’accoglienza del genere non l’avevo mai ricevuta, nemmeno dalla mia famiglia, e queste persone non mi conoscevano! Credo che da quel momento le paure si siano messe in un angolo, per far spazio a tutto quello che di bello sarebbe arrivato.
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